Il verde, oltre ad essere il colore dei soldi, è sempre più quello dell’ambiente; della sostenibilità, della lotta all’inquinamento.
Ma in questi tempi di derivati tossici, speculazioni finanziarie, debiti insolvibili e mercati malati, l’idea di rendere le banche meno inquinanti dal punto di vista economico e sociale non è più solo una trovata pubblicitaria.
Da qualche tempo, infatti, il Guardian propone una classifica di nuovi istituti di credito che si propongono “più etici”; rappresenterebbero una sorta di radicale distacco da tutto ciò che ha caratterizzato le banche che ci hanno portato alla crisi globale del 2008.
La campagna “Move your money” invita i consumatori a spostare i propri soldi dalle vecchie banche (molte delle quali continuano a concedere osceni bonus multimilionari ai loro più profittevoli manager) verso nuovi istituti, che hanno una struttura cooperativa e si basano su alcuni principi etici, come il non investire in armamenti, o nei prodotti transgenici. Molte di queste banche “rivoluzionarie” non hanno azioni né tantomeno azionisti e reinvestono gli utili per favorire creditori e investitori.
Altre si impegnano ad investire solo in altri istituti del genere (le nostre onlus), che vengono infatti classificati come charity. Si tratta di gruppi di volontariato e altri tipi di iniziative sociali.
Alcuni istituti si sono specializzati in prestiti rivolti al commercio equo e solidale, alla produzione biologica e alle energie rinnovabili (a proposito di verde).
Si sta insomma sviluppando l’idea dell’economia costruita su basi etiche, dopo che per anni istituti finanziari e società private hanno inquinato, in tutti i sensi, il mondo che ci circonda.
La crisi globale che ne è venuta fuori avrebbe dovuto farci fare un passo indietro rispetto all’idea che abbiamo di “fare soldi”. L’anteporre il profitto a tutto il resto ha causato danni incalcolabili dal punto di vista finanziario, sociale e ambientale.
Ma ancora adesso, le principali preoccupazioni dei leader di tutto il mondo consistono nel ricapitalizzare e rafforzare le principali banche dei propri paesi. Non esiste paese al mondo dove la priorità per uscire dalla crisi non consista nel salvare proprio quei soggetti che si sono rivelati i maggiori responsabili di tale crisi.
Ma tra gli innumerevoli effetti che la logica del profitto a tutti i costi ha causato e continua a causare, non possono essere dimenticati quelli ambientali, che verranno pagati anche dalle generazioni future, colpevoli solo di essere nate da padri e nonni troppo avidi.
I danni che alcune multinazionali stanno continuando a produrre all’ecosistema sono pressoché incalcolabili. Tra le prime, vi sono le corporation petrolifere (spesso cruciali nel finanziare campagne politiche di ogni colore) che si rendono responsabili di crimini ambientali atroci. Si pensi a quello che alcune grandi compagnie hanno causato nel delta del Niger o nella regione amazzonica. Alcuni di questi casi si sono conclusi in tribunale con la condanna dei i giganti petroliferi, i quali però sono sempre piuttosto restii a risarcire popolazioni e governi locali.
Il fatto che molte delle attuali banche che chiedono di essere ricapitalizzate investano in multinazionali del petrolio, aziende armiere e gruppi spesso legati al malaffare non può che essere un incentivo al far diffondere sempre di più quegli istituti etici che basano la propria attività su qualcosa che va oltre il verde dei soldi.